IL PROGRAMMA DELLA BICICLETTA

IL PROGRAMMA DELLA BICICLETTA

IL PROGRAMMA DELLA BICICLETTA

……..OVVERO COME ARRIVARE FELICI AL 2050

Nella politica trevigiana si è spesso evitato di pensare alle conseguenze degli atti che si compivano. L’attenzione è sempre stata rivolta al presente, fosse l’interesse economico della classe dominante o la necessità di mantenere il consenso. Così si sono accumulati problemi, grandi e piccoli.
Abbiamo deciso di proporre alla riflessione dei cittadini le valutazioni e proposte emerse dalle discussioni di Impegno Civile.
Il documento si articola in una breve storia economica di Treviso, perché partire dalla memoria è sempre necessario; prosegue con la ricognizione dei problemi attuali; si conclude con un insieme di proposte collegate dalle questioni generali della crisi climatica, del lavoro, della crescente disuguaglianza.

carlafrancescogiovannilucianonicepaolotinotitta

CONOSCERE IL PASSATO PER CAPIRE IL PRESENTE
E PREPARARE IL FUTURO

CONOSCERE

Il PRG approvato nel 1946 ad unanimità dal Consiglio Comunale del Comitato di Liberazione Nazionale (CNL) indicava chiaramente uno sviluppo compatto della città, prevalentemente nella zona Nord (considerata più salubre, allora si pensava anche a questo) senza soluzione di continuità rispetto al tessuto urbano esistente.
L’espansione era per la maggior parte contenuta tra la ferrovia e la Strada Ovest (viale della Repubblica) per evitare il più possibile cesure del tessuto urbano, spostando anche l’asse Nord-Sud (la statale 53) lungo la ferrovia.
Si prevedeva una espansione ad Est per includere Fiera nel tessuto urbano e a Sud, oltre la ferrovia, per consolidare le frazioni di Sant’Antonino (dove si sarebbe costruito il nuovo ospedale) e S. Lazzaro.
Fu previsto un aumento demografico: partendo dai 58.620 abitanti del 1943, si ipotizzò una crescita a 76.000 abitanti nel 1975, tutti contenuti nello sviluppo urbano previsto.
Probabilmente fu questa previsione ad accendere gli appetiti dei proprietari dei terreni in periferia che valutarono la possibilità di guadagno nel passaggio da terreno agricolo ad edificabile.
Si iniziò la realizzazione delle indicazioni del PRG: fu aperta la “via dei Colli” (ora via Toniolo) e, al di là dell’ospedale vecchio e di via Gualpertino da Coderta, fu costruito il ponte sul Cagnan e allargato vicolo Carlo Alberto.
In periferia, a Santa Maria del Rovare furono realizzate piazza D’Armi e alcune case popolari .
Con le elezioni comunali del 31 Marzo 1946, a reggere il comune si formò una maggioranza di centro destra, assai più attenta alle richieste della classe dirigente trevigiana.
Venne meno lo spirito unitario delle forze della Resistenza e fu abbandonato il PRG che quelle forze avevano ispirato. Negli ultimi anni ‘40, l’attività edilizia si concentrò sulla ricostruzione e riparazione degli edifici in centro storico, che era stato semidistrutto dai bombardamenti aerei del ‘43 e ‘44.
Ma presto cominciarono gli interventi in periferia, anche di edilizia pubblica.
Nuclei di case popolari furono disseminati a S. Antonino, S. Zeno e S. Bona (un decrepito quartiere di case popolari fu abbattuto e ricostruito), a Fiera, all’Eden.
Appare evidente la casualità delle localizzazioni, sempre più lontane dal centro cittadino, ma sempre capaci di far aumentare il prezzo dei terreni agricoli – divenuti edificabili – compresi tra questi nuclei e il centro. Le iniziative dei privati rispondono ovviamente solo all’interesse particolare.
Nel decennio 1951- 61 si costruiscono 7.709 alloggi: il censimento del ‘61 registra 75 alloggi vuoti. Gli abitanti di Treviso aumentano di 24.259 persone (il 13,8% in più); nel 1961 siamo a 87.696 residenti. Contemporaneamente nel ventennio 1961-1981 aumentano gli abitanti dei comuni di corona (Carbonera, Silea, Casier, Preganziol, Quinto, Paese, Ponzano, Villorba) da 49.359 a 76.961 (più 55,9%).
L’aumento del costo del terreno nel capoluogo induce i trasferimenti nei comuni di corona e dà inizio all’esodo dal centro.
Si comincia a parlare della “Grande Treviso”: in realtà si avvia la formazione di una periferia estesa negli 8 comuni di corona.
Nei primi anni’60 si sviluppa il primo grosso scontro politico sulla gestione del territorio.
La giunta di centro-destra propone un Piano per l’Edilizia Economica Popolare (Legge 167/1962) che prevede la localizzazione dei lotti PEEP dispersi verso i confini comunali. Il PCI contropropone la localizzazione del PEEP con lotti di case popolari in aderenza al nucleo centrale e attorno alle vecchie le frazioni per rafforzarle. Dopo 6 mesi di dibattito in Consiglio Comunale, il piano viene approvato dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici che accoglie parte delle proposte del PCI.
Neanche questo piano servirà però a razionalizzare lo sviluppo urbano.
La costruzione di case popolari di iniziativa pubblica andrà via via diminuendo e le cooperative casa saranno spinte dal mercato verso zone periferiche a basso costo. Non si terrà conto delle altre condizioni dell’abitare e si comincia a preparare la bolla edilizia. Nel decennio 1961-1971 saranno costruiti nel comune 6909 alloggi, quelli non abitati salgono a 1.119.
In quegli anni appare (e si svilupperà enormemente nei decenni successivi) un nuovo fenomeno: il mutuo casa, un espediente con il quale si intende sopperire alla deficienza di case popolari, mantenere elevato il costo della casa (cioè l’utile degli investimenti in edilizia residenziale e la sottostante rendita fondiaria), sostenere l’industria delle costruzioni prosciugando i risparmi dei ceti popolari e del ceto medio basso e fare un regalo alle banche che applicheranno ai mutuatari tassi di interesse ben superiori a quelli riservati alle iniziative economiche.
Nessuno pensa che le banche verranno meno al loro compito istituzionale, il finanziamento dello sviluppo economico.
Se ne pagheranno le conseguenze nel futuro col rallentamento della produttività in Italia rispetto agli altri paesi industrializzati. Gli investimenti nell’industria (rispetto al PIL) sono molto inferiori rispetto a quelli che si avviavano in Francia e Germania. Ne pagheremo le conseguenze con la perdita di competitività e la progressiva chiusura della nostra grande industria. La DC sosterrà fortemente i mutui casa lanciando lo slogan “non più proletari, tutti proprietari”.
Questa è la situazione generale del Paese, non solo della città.
In questi anni, infatti, scompare progressivamente l’apparato industriale di Treviso composto da una ventina di fabbriche dai 50 ai 300 addetti, dal tessile al metalmeccanico dall’abbigliamento alla tipografia.
Resta l’industria delle costruzioni che impiega prevalentemente prima una manodopera proveniente dalla campagna, poi extra comunitari.
Si impoverisce anche la società trevigiana: si spappola nei servizi il nucleo di classe operaia e si indebolisce la sua rappresentanza politica, la classe imprenditoriale si trasforma in percettrice di rendita, una classe parassitaria.
Tutti questi fenomeni fanno aumentare le disuguaglianze.
Negli anni’60 si prepara il nuovo PRG.
Il 1963 è l’anno della battaglia per la riforma urbanistica. Il ministro democristiano Sullo propone una legge che distingua tra proprietà dei terreni e diritto di superficie. I comuni dovrebbero acquistare i terreni da edificare a prezzo di terreno agricolo, fare le opere di urbanizzazione e rivenderli alle imprese di costruzione. L’obbiettivo è non far pagare alla collettività la rendita fondiaria e consentire ai comuni il controllo dell’espansione urbana. Il blocco dei grandi proprietari, dell’industria delle costruzioni e del capitale finanziario impone alla DC di rifiutare il progetto. La sinistra, compresa la sinistra democristiana, è sconfitta.
In questo quadro, nel 1968 è approvato il nuovo PRG di Treviso col voto contrario del PCI.
La giunta DC-PSDI detta le dimensioni del piano: previsione di raggiungere i 170.000 abitanti, rendendo edificabile il 60% del territorio comunale: 3343 ettari.
Il progettista approva il PRG su tali dimensioni, con elevati standard urbanistici che avrebbero consentito l’edificazione di una città con buona qualità della vita, quindi appetibile per i nuovi inurbati. Sarebbe stata una previsione realistica dato che nel periodo 1961.1981 la popolazione degli 8 comuni circostanti è cresciuta di 60.743 abitanti, il 223,06 % .
Ma non è così, il PRG resta sulla carta, la qualità dell’abitare nella periferia trevigiana resta analoga a quella dei comuni di corona ed il prezzo dei terreni (più elevato perché la rendita fondiaria sfrutta anche la vicinanza dal centro e di qualche servizi preesistente) rendendo edificabile quasi tutto il territorio. Il piano è stato voluto ed usato per potenziare la rendita fondiaria estendendo la cementificazione del suolo.
In più dal PRG è stralciato il Piano Particolareggiato del centro storico, dove si opererà con variazioni d’uso e deroghe. Inizia lo spopolamento del centro con l’espulsione dei ceti deboli che abitano in affitto, delle botteghe artigiane, dei piccoli negozi di alimentari. Si fa posto ad impieghi più redditizi, banche e uffici: una rendita fondiaria a beneficio dei possessori di immobili. Un ulteriore passo dell’aumento di diseguaglianza pagato dalla collettività.
La popolazione cresce ancora fino a raggiungere il picco di 91.000 nel 1975.
Poi inizia la decrescita. Al censimento del 1981 siamo a 87.696, meno 3%.
Si continua a costruire: nel decennio 1971-1981 altri 3559 nuovi alloggi, sempre dispersi nella periferia mentre quelli non occupati raddoppiano a 2357. La bolla edilizia si va formando. Nel decennio 1981-1991 si costruiscono 2.880 abitazioni, sempre disperse nella periferia. Le abitazioni non occupate salgono a 2.357. Al censimento del ’91 gli abitanti sono 83.598, meno 4,7%.
Alle elezioni del 1.989 si forma una maggioranza di centro-sinistra, comunisti ed indipendenti (eletti nella lista del PCI) entrano in giunta. Appare evidente la necessità di razionalizzare l’uso del territorio e nel 1991 si avvia la variante generale del PRG del ‘68 con l’obbiettivo di ridimensionare le dimensioni delle aree edificabili e di compattare le zone edificate. Nel ‘94 la variante è pronta, ma non c’è più una forza politica capace di trasmetterne il valore ai cittadini.
Con le elezioni del ‘94 comincia il ventennio della Lega che come primo atto rifiuta la variante generale.
La cifra che caratterizza tutto il dominio della Lega è la totale continuità con le scelte fatte dal centro destra nel quarantennio precedente: la difesa dell’interesse della classe dominante ignorando i problemi che quelle scelte creano e l’interesse della grande maggioranza dei cittadini sia economico che della qualità della vita. L’ immobilismo domina l’attività amministrativa della Lega (l’iniziativa è lasciata ai privati) salvo due interventi sul traffico: l’inutile pista ciclabile di viale Vittorio Veneto, fatta restringendo la sede stradale, e il Piano Urbano dal Traffico, un doppio anello attorno al centro che concentra l’inquinamento e dimentica il resto del territorio comunale.
L’unica importante iniziativa è avviata da un ex notabile democristiano, da molti anni presidente della Fondazione Cassamarca. È il “risico immobiliare”, una girandola di scambi di immobili di proprietà pubblica a privati. Operazione che naturalmente richiede la complicità della Lega, cui viene offerta in compenso la vice presidenza di Fondazione. L’obbiettivo di Fondazione è il finanziamento della valorizzazione del sito dell’ex Ceramica Appiani, un grande terreno nell’immediata periferia ovest del centro dove Fondazione pensa di concentrare tutte le funzioni amministrative pubbliche e private. Non si tiene conto né delle indicazioni del PRG (a fronte di 80.000 mc previsti dal PRG ne saranno realizzati 240.000) né delle conseguenze (basti pensare al traffico indotto nel solo Viale della Repubblica).
Viene costruito un grande complesso edilizio, ma l’operazione si conclude con tre perdite secche: la comunità trevigiana perde importanti edifici pubblici (passati a proprietà privata) che avrebbero potuto costituire riserve di spazi per future iniziative; il centro storico perde il suo ruolo di centro amministrativo e ciò mette a nudo la crisi; la Fondazione perde, col mancato affare speculativo, 80 milioni di Euro che avrebbero dovuto essere utilizzati per iniziative culturali e sociali.
A Fondazione Cassamarca si deve anche l’illusione delle grandi mostre d’arte come soluzione dei problemi della città.
Al censimento del 1991 gli abitanti sono 83.598, meno 4,7%. Diminuiscono ancora nel 2001: 80.140, meno 4,1%.
Le abitazioni costruite nel decennio 1991-2001 sono 5.073, quelle vuote salgono a 2.698.
Dopo 20 anni di sproloqui razzisti e amministrazione attenta a non disturbare gli interessi degli speculatori, i trevigiani sono pronti al cambiamento che viene con le elezioni del 2013: una coalizione a guida PD conquista il comune. Gran festa in piazza e attesa di una svolta che non si vedrà. Prima di cadere la giunta leghista, pressoché ultima tra i comuni del Veneto, aveva adottato il PAT (Piano di Assetto Territoriale), senza poterlo approvare. Il sindaco PD sceglie un assessore all’urbanistica che rappresenta la continuità della gestione del territorio di DC e Lega. Così si impiegano tre anni di scontri all’interno della maggioranza per riuscire a cambiare l’assessore e varare un documento di indirizzo e un PAT innovativi.
Si può preparare lo strumento fondamentale, il PI (Piano degli Interventi) affidato interamente ad una “minoranza interna” della maggioranza. Il PI sarà approvato dal consiglio comunale praticamente a fine mandato, fuori tempo utile perché possa essere operativo. Durante il quinquennio del centro sinistra i cittadini non vedono alcun cambiamento sostanziale.
Il sindaco del PD si lascia irretire dalla miracolistica ipotesi che le grandi mostre (i cui visitatori diminuiscono rapidamente) e il turismo attirato risolveranno i problemi della città e intanto perde l’unica facoltà universitaria – disegno industriale dell’IUAV- utile per il comparto dell’industria dell’abbigliamento.
La periferia, dove vive il 90% degli abitanti, è abbandonata. Non si curano neanche gli aspetti formali di cambiamento, es. il brutto monumento a Del Monaco in piazza Borsa.
In questo modo si creano i presupposti per la sconfitta che viene puntualmente con le elezioni del 2018.
La Lega riconquista il comune e come primo atto decide di cambiare il PI.
Nel 2011 la popolazione è salita lievemente a 81.014 abitanti, più 1,1%. Le abitazioni vuote salgono a 3880 e si continua a costruire, anche se a ritmo ridotto dopo la crisi del 2008.
Ora (2020) verosimilmente le abitazioni vuote sono più di 4.000, un capitale di 400 milioni di Euro immobilizzato ed improduttivo. La bolla edilizia è solo parzialmente esplosa, travolgendo varie imprese edili trevigiane fallite o scomparse. I proprietari di case hanno resistito perché provvisti di ampia liquidità. Dopo una sosta nel 2009-2012 il principale settore economico cittadino ha intanto subito una metamorfosi: la gentrificazione ( fenomeno presente in tutta Europa : i nuovi ricchi vanno ad abitare in case di lusso nelle zone più pregiate dei centri cittadini. A Treviso l’ex Edison,i fabbricati in via Battisti,il bosco verticale ecc. ) già avviata nel quinquennio precedente ed ora esplosa. Edifici obsoleti nel centro storico e nella prima periferia vengono trasformati in residenza e di lusso ad alto costo. Nella prima periferia si abbattono villette (ed alberi d’alto fusto nei giardini) per far posto a condomini di 4 -5 piani che non si sa da chi saranno occupati. Nuovi buchi neri? Qualsiasi forma di pianificazione o di razionalizzare del tessuto urbano è un impaccio da eliminare e questo la Lega ha cominciato a fare con modifiche al PI.
Non è inutile ricordare che se si fosse progressivamente attuato il PRG del 1968, avremmo potuto avere oggi una città ordinata di 150.000 abitanti con i vantaggi di scala conseguenti, dal minore costo pro capite del trasporto pubblico, della manutenzione di strade e servizi.

CAPIRE

A Treviso il dibattito sui problemi e le prospettive della città e sempre stato di basso livello, concentrato sulle emergenze dell’oggi, privo di memoria e con orizzonte temporale minimo. Ciò ha impedito di individuare l’origine dei problemi, di correggere di programmare. Occorre allargare ed allungare lo sguardo, inserire Treviso nel contesto delle problematiche e politiche generali, valutarne il contributo positivo o negativo.
La crisi climatica è il nodo critico dell’oggi, dalla sua evoluzione dipende il futuro. Le cause sono note: l’emissione di inquinanti in atmosfera e il rapporto non equilibrato tra economia e natura.
Continua il consumo di suolo in Italia: nel 2019 sono stati cementificati 57 milioni di mq col contributo decisivo del Veneto, primo in classifica per consumo di suolo, 1567 ettari.
La provincia di Treviso è quinta per terreno perso l’anno scorso: il 16,7% di quello disponibile. Il comune di Treviso ha già il 40% del territorio cementificato, ma un altro 20% era già considerato edificabile nel PRG del 1968, dato confermato nei successivi strumenti urbanistici. I tentativi di limitare il danno sono falliti.

A. AMBIENTE AGGREDITO

In settant’anni di crescita urbana (affidata alla regia del mercato – entità impersonale ma molto concreta nel massimizzare i redditi della parte ricca della popolazione ignorando i problemi della maggioranza – ) la rendita fondiaria è riuscita a trasformare un ambiente naturale (o meglio l’ambiente agricolo creato da 2000 anni di lavoro contadino) di 239 kmq. (Treviso più gli otto comuni di corona) in una vasta periferia ad edificazione dispersa, con una densità media di 800 abitanti per kmq. e un piccolo centro urbano di appena 2 kmq. (la zona entro i bastioni), che due decenni fa ha perso gran parte del suo ruolo (le funzioni amministrative trasferite all’ex Appiani e quelle commerciali al sistema dei supermercati esterni) e dei suoi abitanti.
Questa conurbazione, che si stenta a chiamare città, nella sua crescita disordinata ha distrutto coltivazioni pregiate, ha cementificato ampiamente, ha trasformato stradine di campagna in assi a traffico intenso, ha alterato il regime idrico del suolo tagliando le falde con fondazioni e garage sotterranei.
Malgrado l’assenza di industrie inquinanti, Treviso ha dato un contributo alla crisi climatica.
In questi settanta anni un fenomeno sociale, il massiccio trasferimento di forza lavoro dall’agricoltura all’industria e al terziario ha indotto questa forte tendenza all’inurbamento. Fenomeno sociale, la cui gestione, cioè l’ampliamento dei centri urbani, non è stata assunta dalle istituzioni della collettività, ma abbandonata al mercato, interessato solo alla difesa degli interessi dei ceti abbienti.
Così a Treviso le “leggi del mercato”, cioè il progressivo aumento del costo dei terreni, ha tenuto gran parte degli inurbati fuori dei confini comunali. Risultato: dal 1951 al 2011 la popolazione di Treviso è cresciuta del 27,7%, quella degli otto comuni di corona del 223,06%. Così ora abbiamo una periferia estesa su 239 kmq. con una densità di appena 800 abitanti per kmq.
La dispersione di residenza e attività produttive ha indotto una intensità di traffico responsabile di gran parte dell’inquinamento dell’aria. Secondo le rilevazioni dell’ARPAV un assai rilevante numero di sforamenti e uno standard di inquinanti appena sotto al livello di guardia, Treviso sta dando un contributo all’aggravamento della crisi climatica.

Se vogliamo partecipare alla salvezza della terra, contribuendo al raggiungimento degli obiettivi di decarbonazione fissati dagli accordi di Parigi per il 2030, occorre anzitutto cambiare paradigma.
⋅ 1 – preoccuparci di diminuire il CO2 che produciamo. Ciò significa piantare alberi, tanti alberi. Si dovrà cominciare completando l’alberatura del “bosco del respiro” e trasformando il parco Uccio a S. Bona in bosco urbano.
Altri boschi urbani si dovranno realizzare alla caserma Piave nella zona non utilizzata dalla Open Piave, in via Paludetti, all’ex Telecom a S. Zeno, alla caserma Salsa, all’ex Consorzio agrario al ponte della gobba, anche importante punto di partenza delle “restere del Sile, che la Regione dovrebbe regalare ai cittadini di Treviso (sarebbe il primo atto veramente ecologico di Zaia), 20 ettari di bosco, per cominciare.
E tutelare anche gli alberi di alto fusto privati imponendo l’autorizzazione comunale per l’abbattimento, poiché sono anch’essi difesa della salute pubblica

⋅ 2 – trasformare l’informe periferia in una “città verde”
o 1 – collegare da est (Fiera) a ovest (Monigo) tutta la periferia nord con un percorso ciclopedonale separato dal traffico veicolare, superando le intersezioni con passerelle ciclopedonali.
o 2 – individuare zone pedonali attorno a piccole zone commerciali o con presenza di servizi, attrezzandole per la sosta o l’incontro e aumentandone l’alberatura;
o 3 – bloccare il consumo di suolo rilanciando l’agricoltura di prossimità; consentire nuove costruzioni solo dove siano utili a completare le zone pedonali;
o 4 – collegare la “città verde” al centro storico con un percorso verde nord-sud dalla busa dell’oio al bastione, superando l’intersezione con viale della Repubblica e Il PUT con ponti pedonali;
o 5 – completare la dotazione di strutture e servizi pubblici nella periferia, cominciando con l’istituzione di poliambulatori a Monigo e S. Maria del Rovere.

⋅ 3– istituire un “assessorato al risparmio energetico” con relativo apparato tecnico col compito di supportare i cittadini nella grande operazione di diminuire il consumo energetico di tutti gli edifici esistenti, utilizzando i finanziamenti europei e le provvidenze statali. Operazione tesa anche a ridurre le diseguaglianze; poiché è assurdo che i ricchi abitino in case a basso costo di gestione e i poveri debbano scegliere tra mangiare e riscaldarsi.

⋅ 4 – per informare e coinvolgere i cittadini, sarà utile che il Comune pubblichi ogni anno un bollettino con i dati sulla qualità dell’aria (rispetto al periodo precedente) e le iniziative comunali per la difesa dell’ambiente.

B. DEMOGRAFIA

Da tempo i demografi hanno lanciato l’allarme: l’Italia perde abitanti, le previsioni dicono che al 2050 saremo 6 milioni in meno. Il fenomeno sembrava non interessare il governo e l’opinione pubblica finché gli economisti non hanno aggiunto che i pensionati hanno superato i lavoratori, che sarà un problema pagare le pensioni e che si prevede che il PIL diminuirà del 5%. Ma ancora non si vedono proposte ed azioni per far fronte alla situazione.
All’interno del generale fenomeno di perdita e invecchiamento della popolazione che colpisce l’Italia, la vicenda di Treviso è ben più complessa.
Nel complessivo processo di urbanizzazione, la città aumenta gli abitanti fino al 1975 raggiungendo il picco di 91.000 residenti ma già si avvia ad un fenomeno inverso, lo spopolamento della città entro i bastioni, causato dall’espulsione dei ceti popolari, per far posto ad attività più redditizie.
Ma l’urbanizzazione è fermata dal costo dei terreni edificabili ai confini del comune, ai comuni di corona che dal 1951 al 2011 aumentano la popolazione del 223,06%, da 49.359 a 110.102 abitanti. Nello stesso periodo, Treviso passa da 63.437 a 81.014 abitanti; il 27.7%.
Ora siamo a poco più di 85.865, un aumento di 4851 dal 2011 ( il 5,98% in più in 9 anni) dovuto in gran parte all’afflusso di stranieri.
I trevigiani autoctoni continuano ad andarsene, soprattutto i giovani alla ricerca di condizioni di lavoro e di vita migliori, di abitazioni a minor costo, di aria pulita. Così le nascite diminuiscono e la città invecchia pericolosamente. A compensare parzialmente la forte perdita che sta mettendo in crisi tutto il settore commerciale cittadino, per fortuna sono arrivati gli extra comunitari, ormai 13.000, una quota importante. Sono questi i nuovi trevigiani che terranno viva la città se sapremo integrarli non solo nel lavoro, ma in tutti gli aspetti della vita, molto più di quanto si sia fatto fino ad ora.
Da 45 anni perde residenti autoctoni, circa 16.000 dal 1975 ad oggi. Diverse sono le cause di questa diminuzione, anzitutto i giovani che vanno a cercare lavoro qualificato all’estero (nel 2019 sono 140.000 i giovani laureati e diplomati che hanno abbandonato l’Italia), poi interi nuclei familiari che hanno lasciato il comune in cerca di migliori condizioni di abitazione, infine il saldo naturale: i morti hanno superato le nascite. La città è invecchiata. Perché i giovani vanno lontano e là restano e là fanno figli.
Per fortuna sono arrivati altri stranieri, dai paesi poveri in cerca di lavoro e di sicurezza, a colmare parzialmente i vuoti lasciati dai trevigiani. Senza di loro la città sarebbe morta, gli alloggi vuoti sarebbero il 50% in più. Abbiamo bisogno della loro presenza, non solo del loro lavoro. Dobbiamo integrarli nella nostra vita, farli sentire nuovi trevigiani. Il razzismo della Lega è un pericolo per la città.

C. LAVORO

L’emergenza Covid sta incidendo profondamente sul mercato del lavoro, già depresso per effetto della crisi del 2008 e ancora non superata.
Da questo punto di vista Treviso non presenta una situazione diversa dal resto del Paese.
I due temi principali riguardano la perdita di posti di lavoro per effetto della contrazione di fatturato delle aziende (e delle chiusure di alcune di esse) e la difficoltà per i giovani di inserirsi nel mercato del lavoro.

In particolare, per i giovani, le difficoltà derivano da:

  • mancata crescita delle aziende italiane a partire dalla crisi del 2008, che quindi non generano nuovi posti di lavoro
  • delocalizzazione della manifattura, ulteriore elemento di riduzione dei posti di lavoro
  • presenza di un elevato numero di giovani con un percorso di studi non appetibile per le aziende (e purtroppo con sbocchi limitati in tutto il Paese)
    Le altre opportunità offerte dall’impiego pubblico sono notoriamente scarse e le libere professioni soffrono, salvo qualche caso, di eccedenza di offerta.
    Tutto ciò nonostante che nell’area della “grande Treviso” vi siano almeno due grandi gruppi industriali multinazionali: Benetton e De Longhi a cui si aggiunge un gran numero di aziende medie e piccole (distretto della calzatura sportiva a Montebelluna, Inox Valley nel coneglianese, distretto del prosecco ecc.)
    Pochi sono gli strumenti a disposizione delle Amministrazioni comunali in questo settore. Esiste però una grande opportunità che Treviso potrebbe sfruttare proprio per la caratteristica di essere al centro di un’area, il Veneto orientale, fortemente industrializzato, ma caratterizzato da un grave deficit dimensionale delle aziende stesse. E’ quello della RICERCA.
    E’ noto che in Italia la ricerca soffre di scarsa attenzione da parte della pubblica amministrazione.
    L’idea è quella di creare a Treviso un importante Centro di Ricerca specializzato nel fornire alle aziende gli strumenti per rendere i processi produttivi ecosostenibili.
    Si tratta di un tema trasversale a buona parte dei settori industriali, ma che solo aziende di grandi dimensioni possono affrontare autonomamente.
    Il progetto dovrebbe coinvolgere, oltre all’Amministrazione comunale, l’Associazione degli industriali, i sindacati, le Università di Padova e Venezia e la Regione.
    Gli spazi per allocare il Centro non mancherebbero, basti pensare, ad esempio, a Villa Margherita.
    Per le risorse economiche si potrebbero utilizzare i fondi europei, di questi tempi abbondanti.

I vantaggi per la città sarebbero molteplici:
creazione di posti di lavoro per giovani laureati e non
⋅ ruolo della città come “capitale verde” dell’industria veneta
⋅ circolazione in città di persone coinvolte nel progetto (imprenditori, manager, docenti ecc.)
⋅ utilizzo (con possibili ristrutturazioni) di spazi comunali al momento vuoti.

D. MAFIA

• 6 settembre 1992: a Longare è arrestato Giuseppe Madonia, l’organizzatore della strage Falcone e Borsellino. Si era nascosto in Veneto, ad Abano Terme.
• 28 gennaio 2015: in Veneto ed Emilia vengono arrestate 160 persone affiliate alla cosca Bolognino della Ndrangheta.
• 19 febbraio 2019: 50 arrestati in provincia di Venezia, tra cui il sindaco di Eraclea, affiliati alla camorra dei Casalesi.
• 12 marzo 2019: 27 arrestati in provincia di Padova, con il sequestro di beni per 63 milioni di euro.
Sono alcuni esempi dell’azione di contrasto alla mafia svolta in questi anni da Magistratura e Guardia di Finanza.
Ma quanto è emerso è evidentemente solo la punta dell’iceberg.
Il grande problema di ordine pubblico nel Veneto è essenzialmente questo:
la diffusa presenza delle mafie (la ‘ndrangheta calabrese, ora prevalente, la mafia siciliana e la camorra napoletana) nel tessuto economico e sociale della regione. E non mancano collegamenti locali, ad esempio con uomini della mafia del Brenta tornati in circolazione. L’obiettivo è ripulire i proventi del traffico di droga e armi, fare affari alterando gli appalti di opere pubbliche, esercitare il prestito ad usura. E’ noto come l’attività mafiosa possa frenare crescita e sviluppo, particolarmente con l’usura, in questa fase di crisi, con la quale riescono a destabilizzare molte nostre piccole aziende per impadronirsene o per costringerle a chiudere. Di tutto questo abbiamo notizia dalle cronache giudiziarie, più volte all’anno. L’azione di contrasto di Polizia e Magistratura è efficace, con arresti di decine di persone e sequestri per milioni di euro. Ma non basta, occorre una risposta politica e culturale della quale non si vede traccia né da parte della Lega, partito dominante in regione, né da parte delle forze di opposizione.
Per liberare l’economia veneta dalla presenza e dal condizionamento delle mafie è necessario che forze politiche, istituzioni democratiche (in particolari i Comuni) e istituzioni della cultura si impegnino in una continua azione di informazione e formazione che porti ad un isolamento e denuncia di ogni attività riconducibile alle mafie.
A fronte del fenomeno mafioso, la piccola delinquenza degli immigrati, spesso dovuta alle conseguenze dei decreti Salvini, è ben poca cosa. Basterà una più efficace integrazione per eliminarla.

E. COMMERCIO

Treviso è stata tradizionalmente un importante centro commerciale: gli esercizi commerciali sono stati parte fondamentale della sua vita economica, i commercianti parte essenziale della sua società.
Ma ora il commercio è in crisi, si contano a centinaia i negozi chiusi (dal centro storico sono quasi scomparsi i negozi di alimentari di vicinato). Si lamenta l’invasione dei supermercati e delle grandi catene, si tentano varie iniziative per ravvivarlo, senza riuscirci. Non si analizzano le cause della crisi, che sono in gran parte dipendenti dal tipo di sviluppo della città. Parte degli abitanti hanno abbandonato il centro disperdendosi nella periferia dove sono arrivati, solo in piccola parte i nuovi inurbati. Le masse dei nuovi inurbati si è dispersa negli otto comuni di corona che hanno visto gli abitanti crescere da 49.359 nel ’51 a 110.108 nel 2011, 223,06% in più.
I negozi di vicinato non hanno potuto seguire gli abitanti nella periferia, la rete troppo rada di residenza non consentiva una clientela sufficiente per la sopravvivenza economica.
Così Treviso ha perso parte importante del suo tessuto economico e, peggio ancora, parte della borghesia cittadina indebolendo la sua società.
Nella estesa periferia che si è formata (la periferia cittadina più gli otto comuni contermini), caratterizzata da residenza a larghe maglie e bassa densità, la grande distribuzione ha trovato l’ambiente ideale dove insediarsi e svilupparsi, favorita dalla legislazione regionale e dalla acquiescenza delle amministrazioni comunali ai poteri forti.
Mezzo secolo di politica urbanistica in funzione della rendita fondiaria, e contro l’interesse della maggioranza dei cittadini, ha preparato anche la crisi del commercio tradizionale.
Ora assistiamo a una guerra tra i gruppi della grande distribuzione che provocherà ulteriore cementificazione, e in futuro altri buchi neri.
La salvezza per il commercio tradizionale può venire solo dalla trasformazione della periferia in “città verde”

F. PER LA TREVISO DEL PROSSIMO FUTURO:
UNIVERSITÀ, RICERCA, RELAZIONI INTERNAZIONALI

Tra i compiti più rilevanti di una amministrazione Comunale c’è quello di immaginare e possibilmente realizzare il futuro della città.
Si tratta di intervenire, con lo sguardo lungo, su materie fondamentali: lo sviluppo del territorio, l’impulso ad una vita ordinata e civile, il sostegno alle opportunità di crescita della cultura e dell’economia.
Da molti anni Treviso ospita eccellenti facoltà universitarie ma questo non basta per fare di Treviso una città universitaria.
Il tema è chiaro: per il Comune non si tratta di limitarsi a favorire la permanenza in questa o quella sede di Ca’ Foscari o di Giurisprudenza. Troppo poco e troppo semplice chiedere o auspicare che le Università non se ne vadano. Anche perché l’eventuale cambio di sede all’interno della città è una partita immobiliare che, in larga misura, lascia il Comune in disparte, un osservatore con poche possibilità di intervento.
La domanda a cui rispondere è dunque: che farsene delle Università a Treviso?
I docenti e gli studenti delle Università sono grandi risorse culturali ed economiche per la città.
Il progetto di un concreto coinvolgimento delle Università dovrebbe guidare i futuri rapporti tra il Comune e le Università stesse.
Il primo passo sarà quello di far comprendere a docenti e studenti che la città di Treviso è la loro città.
Come è accaduto in passato, alcuni spazi istituzionali e prestigiosi (Palazzo dei Trecento, Santa Caterina ad esempio) potrebbero ospitare periodicamente lezioni universitarie aperte ai cittadini, concordando con i docenti argomenti di interesse anche per il pubblico trevigiano. E si potrebbero costruire convenzioni con cinema e teatro Comunale per consentire a docenti e studenti di vivere più da vicino la vita della città.
Ma l’obiettivo rilevante di medio-lungo periodo è quello di avviare il percorso per fare di Treviso un centro internazionale di ricerca sui temi dell’ambiente e della salute.
Il supporto scientifico è già garantito dalla presenza di Ca’Foscari, Giurisprudenza e Medicina.
Attorno a questo nucleo si faranno convergere scuole di specializzazione su temi ambientali, sull’ecostenibilità delle imprese, sulla salute.
Unindustria, Camera di Commercio, associazioni dell’artigianato saranno gli altri protagonisti chiamati dal Comune attorno al tavolo del futuro di Treviso.

La città e la scuola

La scuola, il luogo principale della formazione dei giovani, non appare al centro dell’attenzione delle scelte politiche.
Quasi sempre hanno vinto i luoghi comuni: la scuola italiana è una porcheria, gli insegnanti non sono in grado di fare il loro mestiere, svogliati e sempre in vacanza. I ragazzi non hanno voglia di fare niente, nessuno gli dà l’entusiasmo che ci vuole, la passione, per accorgersi di come va il mondo.
Per tutti o quasi (popolo e politica) c’era sempre qualcosa di più impellente ed importante da anteporre all’educazione dei giovani e, alla fine, la scuola, come in parte l’educazione dei giovani, non è mai stata una priorità affrontata in termini di investimenti e di miglioramento delle strutture.
Si è sempre pensato che qualcos’altro meritasse la precedenza, che la vita civile degli italiani avesse obiettivi differenti da soddisfare.
In questo scenario culturale la pandemia mette a nudo l’arretratezza culturale del paese e con esso della scuola. Ma la soluzione, ancora una volta, consiste nell’individuare immediatamente un capro espiatorio: il ministro di turno, la burocrazia ecc. Tante critiche, nessuna soluzione.
Così si dimentica che il disagio che le scolaresche devono superare risiede in primo luogo nella mancanza di strutture, classi e palestre adatte al programma scolastico.
Nell’era pre-covid l’affollamento quotidiano era una normalità accettata con rassegnazione e spirito di adattamento. Gli ultimi 40 anni hanno visto scemare nel nulla proposte per far diventare la scuola uno dei cardini della democrazia del paese.
Semplici esempi non mancano: basta frequentare le mura di Treviso a qualsiasi ora del mattino per incontrare intere classi dei vari istituti cittadini, con al comando rassegnatissimi insegnanti addetti alla passeggiata mattutina piuttosto che alla didattica di una vera educazione fisica.
Nelle scuole ospitate entro la cerchia delle mura esistono palestre o impianti atti allo sport solo alle Stefanini e al Duca degli Abbruzzi.
Facciamo un semplice elenco.
Scuole presenti nel centro di Treviso:
Elementari: Ciardi e De Amicis
Medie: Stefanini
Superiori: Artistico, Canova, Duca degli Abbruzzi, Riccati, Besta
Circa 5000 studenti serviti da due impianti sportivi.
Non è un tema che rientra nelle competenze di una Amministrazione Comunale ma non si può non sottolineare che l’intervento di edilizia scolastica sembra quanto mai prioritario per dare valore all’educazione e alla crescita del paese
Il ruolo del Comune è invece possibile e decisivo per una seria programmazione urbanistica in grado di affrontare alcuni dei problemi legati alla presenza di tanti studenti in città.
Su questo tema il Sindaco si impegni per ottenere dallo Stato, nel complesso della ex Caserma Salsa a S. Maria del rovare, anche l’edificio della Cavallerizza. Sarà un importante aumento della dotazione di palestre e insieme la tutela di un significativo edificio dei primi del ‘900.
Per il problema dei trasporti: una rete di ciclabili ben riparata dai mezzi meccanici e che metta in collegamento gli istituti e tutti i luoghi di interesse, potrebbe aiutare ad evitare l’assembramento e i relativi problemi di inquinamento.
Creare delle vere aree di rispetto dove è maggiore l’afflusso di studenti vietando in orario scolastico la circolazione dei mezzi, che attualmente accompagnano i ragazzi nei vari istituti, incentivando l’uso delle biciclette e del normale arrivo a piedi.
La scuola reclama dunque, oltre al resto, di cambiare la cultura del percorrere la città: sempre meno in auto. Scegliere il più moderno utilizzo pedonale, “in sicurezza” sarebbe un atto di grande civiltà e un cambiamento dell’interesse verso i giovani e la loro educazione

G. SANITA’

Il Rapporto Osservasalute 2019 sullo Stato del SSN ha mostrato che dal 2010 al 2018 la spesa sanitaria pubblica è aumentata solo di uno 0,2% medio annuo, molto meno dell’incremento del Prodotto Interno Lordo che è stato dell’1,2%. Nello stesso tempo la spesa sanitaria privata delle famiglie è aumentata del 2,5%. Dal 2010 al 2018 il numero di posti letto è diminuito di circa 33.000 unità, continuando il trend in diminuzione osservato già a partire dalla metà degli anni Novanta. Nel 2017 il numero di medici del SSN era di 105.557 unità con un calo dell’1,5% rispetto al 2014; il personale infermieristico si è ridotto dell’1,7% del numero di unità, che sono passate da 269.151 nel 2014 a 264.703 nel 2017.

Questi dati definiscono bene lo stato del sistema sanitario nazionale su cui si è abbattuta come uno tsunami la pandemia da Covid. Come era da attendersi data la nota diversità di funzionamento dei sistemi sanitari regionali in condizioni di normalità l’emergenza pandemica ha indotto risposte differenti nelle varie regioni. Nell’Italia settentrionale soprattutto nella prima fase della pandemia è emersa una significativa differenza tra due regioni, il Veneto rispetto alla Lombardia. Un’analisi della rispettiva governance sanitaria consente di far luce sulle cause della diversa reazione all’emergenza. Il Veneto, con la Legge Regionale n.19/2016, ha creato un nuovo ente denominato “Azienda Zero” in cui si sono accentrate molte funzioni amministrative prima gestite dalle Ulss. La decisione di istituire l’Azienda Zero è stata presa con l’obiettivo di ottenere risparmi ed efficienza burocratica, lasciando alle 9 Aziende Ulss l’organizzazione dei servizi e dell’ erogazione delle prestazioni. La legge del 2016 si è posta vari obiettivi fra cui di particolare rilievo sono la riorganizzazione della rete ospedaliera, la riduzione delle liste d’attesa, il completamento dell’informatizzazione del sistema sanitario, il Distretto socio sanitario come sede dell’integrazione dei servizi e delle strutture sanitarie e sociosanitarie presenti nel territorio. Gli obiettivi della legge 2016 sono stati confermati dall’ultimo PSR (Piano sanitario regionale) 2019-2023 che prevede un potenziamento della medicina territoriale tramite aggregazione delle cure primarie garantite dai medici di medicina generale, team multiprofessionali per la cronicità, attivazione delle strutture di ricovero intermedie (Ospedali di Comunità, Unità Riabilitative Territoriali e Hospice per malati terminali). L’impostazione che caratterizza la governance del sistema sanitario veneto è l’unitarietà di gestione degli ospedali (con l’esclusione dei due universitari di Padova e Verona) e del territorio rappresentato dai distretti, dalle strutture di ricovero intermedie e dai medici di medicina generale.
In Lombardia, la Legge Regionale n. 23/2015 ha creato un sistema sanitario basato su 3 livel-li. Alla Regione sono state affidate funzioni di programmazione, indirizzo e controllo genera-le; alle “Ats” funzioni di gestione locale della programmazione regionale e di acquisto di beni e servizi; alle Aziende socio sanitarie territoriali “Asst” la gestione dei servizi ospedalieri e territoriali. Con questo tipo di governance la Lombardia non è riuscita a realizzare un’efficiente integrazione ospedale-territorio: in occasione dell’emergenza Covid la medicina territoriale si è trovata carente di risorse e di coordinamento e non è stata in grado di selezio-nare e gestire la massa dei contagiati sintomatici con conseguente crisi del sistema ospedalie-ro. Nel Veneto l’impatto della pandemia è risultato meno drammatico anche per la gestione integrata di ospedale e territorio che è riuscita a salvaguardare la funzionalità dei PS (Pronto soccorso) e dei reparti .
Riconosciuta la buona risposta all’emergenza va detto che anche nel sistema veneto che pur si caratterizza per indici di performance ai vertici nazionali ci sono annosi problemi che ne pos-sono condizionare negativamente il futuro. Da tempo è nota la carenza di posti letto in area medica conseguente alla riorganizzazione della rete ospedaliera; essa era già emersa durante le epidemie di influenza degli scorsi anni e si è manifestata in pieno durante la prima fase del-la pandemia imponendo chiusure di reparti e una penalizzazione dei pazienti non Covid. Ad essa si aggiunge la carenza di specialisti che oltre a mettere a rischio la funzionalità dei reparti ospedalieri provoca inevitabilmente un allungamento delle liste di attesa inducendo un nume-ro crescente di cittadini a ricorrere al privato, che anche nel Veneto come in Lombardia offre risposte di qualità senza lunghi tempi di attesa. Mantenere l’ operatività dei reparti e impedire l’allungamento dei tempi di attesa è e sarà un compito impegnativo perché la formazione di nuovi specialisti richiede anni .La carenza è destinata a durare e solo parzialmente può essere compensata dal provvedimento governativo che autorizza l’assunzione in ospedale degli spe-cializzandi . Nei prossimi 15 anni il SSN (Servizio Sanitario Nazionale) perderà complessi-vamente 56000 medici a causa dei pensionamenti. Per assicurare il ricambio le università di Padova e Verona dovranno aumentare notevolmente i posti disponibili nelle facoltà e nelle scuole di specializzazione con un inevitabile impatto sul finanziamento, la didattica e la logi-stica degli atenei. Già ora gli ospedali di insegnamento (tra cui Treviso) concorrono con l’università alla formazione degli specialisti ma l’aumento delle immatricolazioni potrebbe rivelarsi ancora insufficiente se continuerà la fuga di medici, in genere i più preparati, verso i paesi esteri o il privato, attratti da condizioni di lavoro e retribuzioni migliori di quelle del SSN. L’apertura di una facoltà di Medicina a Treviso potrà in futuro produrre più laureati ma non risolverà il problema degli specialisti. La Regione pensa di poter affrontare il problema con un rafforzamento dell’autonomia ma la soluzione può venire solo da un rifinanziamento e dalla riorganizzazione del SSN.
Un altro problema è rappresentato dalla inadeguatezza della medicina territoriale di fronte alle crescenti esigenze della popolazione a causa del progressivo aumento dei cittadini della fascia di età superiore a 65 anni e dell’ ”esplosione” del numero di pazienti cronici con più patolo-gie. Al momento è in funzione un solo ospedale di comunità a Treviso sui tre previsti dal PSR nell’Ulss per garantire le cure a chi superata l’acuzie non può essere dimesso a domicilio o a chi è a domicilio e soffre di una patologia per cui non necessita di ricovero in ospedale ma ha bisogno di cure non erogabili a domicilio. Un ulteriore elemento di debolezza del sistema ter-ritoriale è rappresentato dalla incompleta attivazione del fascicolo sanitario elettronico indivi-duale, strumento indispensabile per la presa in carico dei pazienti senza ritardi diagnostici e duplicazione di esami da parte di ognuno dei servizi dell’Ulss (ospedale e territorio) e per l’applicazione di programmi di telemedicina nei pazienti cronici ad alto rischio di riacutizza-zione. La gestione della cronicità è un fondamentale compito del distretto: senza una capillare informatizzazione dei servizi non è possibile avere a disposizione in tempo reale tutte le in-formazioni sulla salute del cittadino registrate dall’ospedale, dalla specialistica ambulatoriale e dai team multiprofessionali di assistenza primaria. Il cardine dell’assistenza territoriale è il medico di medicina generale che il PSR vede come braccio operativo del distretto, ma che ad oggi opera, salvo limitate esperienze di medicina di gruppo, da solo, e privo di supporto am-ministrativo e infermieristico. Il medico di medicina generale deve essere posto in condizione di lavorare in ambulatori dotati di strumentazione diagnostica di base col supporto di una se-greteria e di un infermiere e in stretto collegamento oltre che con la specialistica con un’equipe infermieristica territoriale dedicata al controllo domiciliare dei cronici ad alto ri-schio di riacutizzazione .
L’esperienza drammatica del Covid ha indotto la Lombardia ad investire sulla medicina terri-toriale: se si vuole dare una risposta efficace alle sfide della demografia e della cronicita’ an-che nel Veneto si deve seguire questa strada.
Il Comune non può essere assente in questo settore essenziale per la qualità della vita dei cit-tadini: dovrà impegnarsi per reperire locali adatti (negozi inutilizzati, alloggi vuoti, villette abbandonate) situati strategicamente nella periferia, dove gruppi di quattro o cinque medici di famiglia associati e in collaborazione possano dar vita a veri poliambulatori. Si potrà così ac-celerare l’organizzazione della medicina territoriale e insieme avviare la trasformazione della periferia.
Indichiamo come siti adatti il quartiere coordinato, la caserma Salsa, Fiera e S. Angelo.”

H MOBILITA’

Dal dibattito politico veneto e trevigiano sono scomparsi tutti i temi relativi all’area metropolitana PA.TRE.VE, in particolare quelli riguardanti l’adeguamento del sistema dei trasporti, il cui ammodernamento è indispensabile sia per l’economia (trasporto merci e forza lavoro) e la vita sociale, sia per ridurre la quantità delle emissioni inquinanti prodotte dall’attuale sistema di trasporto veicolare. Si è avviata la costruzione del Sistema Ferroviario Metropolitano PA-TRE-VE realizzando il tratto Venezia a Padova. Poi il progetto fu abbandonato perché ritenuto troppo costoso, mentre la Regione finanziava la superstrada subcollinare, di assai dubbia utilità nel futuro, con consumo di suolo agricolo e relativa distruzione di vegetazione arborea, spreco di soldi pubblici e inquinamento delle falde acquifere che alimentano gli acquedotti.
Il Comune deve chiedere alla Regione che il progetto SFM (Sistema Ferroviario Metropolitano) sia realizzato includendolo tra i progetti da finanziare con fondi europei del recovery fund.
Intanto crescono sia l’autostrada triestina, sia la superstrada sub-collinare. Si sa che attività economiche e residenza tendono a concentrarsi lungo questi assi di traffico.
Treviso, posto a metà tra questi assi stradali, rischia un isolamento pericoloso che può essere una ulteriore causa di declino. Dall’Unità per oltre un secolo la città è stata un importante nodo ferroviario. Nel dopoguerra il trasporto ferroviario è stato trascurato, una linea (la Treviso – Ostiglia è stata disarmata). Un breve ritorno di interesse a metà degli anni ’80, che con un ingente investimento ha portato alla costruzione di un enorme scalo merci a Cervignano in Friuli e alla eliminazione di tutti i passaggi a livello fino a Treviso, è stato poi abbandonato.
Ma il trasporto ferroviario, assai meno inquinante e meno costoso di quello su ruota, è elemento essenziale della battaglia contro l’inquinamento. Come pure sarà essenziale per la vita delle città in un mondo che cambia.
Il Comune, si sa, non costruisce ferrovie. Ma deve elaborare i suoi programmi e proporne l’esecuzione a Governo e Regione. Per Treviso sono questi:

  1. il collegamento della città al Sistema Ferroviario Metropolitano;
  2. il raddoppio delle linee ferroviarie ancora a binario unico;
  3. l’utilizzo del tracciato ferroviario entro i confini comunali per realizzare una “metropolitana di superficie” est-sud-ovest con fermate a S. Artemio (villa Margherita) – scalo Motta – Ospedale (importante per ridurre il traffico indotto dall’ospedale) – stazione centrale FFSS – S. S. Quaranta – Monigo.
    L’avvio di questo programma può essere iniziato con finanziamenti europei.
    Problema a sé è il collegamento aereo che va affrontato con una visione temporale lunga, che ha a monte l’art. 11 della nostra Costituzione e la conseguente prospettiva di disarmo. E’ certo che l’aeroporto Canova non può restare dov’è sia perché insiste in un’area fortemente antropizzata (con conseguente pericolo di disastri e inquinamento) sia per l’elevato traffico d’auto indotto (circa 70.000/anno). La possibile soluzione è trasferirlo al posto dell’aeroporto militare di Istrana (in prospettiva, inutile) e raccordarlo alla ferrovia con un breve tronco di pochi chilometri, che consentirà di raggiungere l’aeroporto in treno da tutto il Veneto centrale, eliminando una ulteriore quota di traffico auto. Nel frattempo cosa bisogna fare? Il rigido controllo del numero dei voli autorizzati e l’istituzione di una fermata della ferrovia (a 500 metri dall’aerostazione) sarebbero un buon segno e l’avvio della metropolitana di superficie.

CONCLUSIONE

Titolare questo documento ”il programma della bicicletta” con il suo logo con cui abbiamo partecipato alle elezioni comunali rappresenta il progetto di cui auspichiamo la realizzazione:
• che la bicicletta prevalga sull’auto nella mobilità urbana è una immagine che vuole significare che tutto ciò che indichiamo nel programma sarebbe fatto per rendere possibile questa opzione.
• che sono possibili tante scelte amministrative, tutte interdipendenti, finalizzate alla difesa della terra e del suolo del nostro comune per assicurare un futuro alle nuove generazioni, per assicurare un lavoro a tutti, per una migliore qualità della vita per tutti, per offrire un vero futuro alla nostra città.
• che realizzare ”il programma della bicicletta” significa che i cittadini trevigiani hanno capito il peso della posta in gioco, hanno capito che non si può continuare con modelli economici e culturali che ci hanno portato alla crisi (vedi Papa Francesco, Fratelli tutti, paragrafi 15-16-17.)
Costruiamo insieme nuovi paradigmi e impegniamo anche i nostri cittadini e il Comune nella azioni per la salvezza della Terra e dell’Umanità.

Impegno Civile.

TREVISO, 05.11.2020

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